Il giornalismo e le Instagram Stories

di Nicola Zamperini

Il problema è la carta non il giornalismo.

Se dobbiamo disperarci per la fine di qualcosa, questa è la fine dei giornali di carta. O quantomeno il fatto che si stiano trasformando in un’esclusiva delle élite, oppure in fogli iper-locali. Ma non, per fortuna, la fine del giornalismo in sé. Ci mancherebbe. A dispetto delle fake news e com’è già accaduto nella storia del giornalismo, assisteremo alla nascita di formati e linguaggi differenti, a nuovi supporti e spazi inediti di diffusione delle notizie.

La capacità di leggere e interpretare il presente rimarrà pressoché esclusiva di quei giornali cartacei, quotidiani e non, che punteranno su notizie e analisi di qualità. La storia delle violenze di Harvey Weinstein, di cui oggi il pianeta intero prende conoscenza, è nata grazie a un’inchiesta del New York Times. E da lì si è diffusa ovunque, carta, radio, tv, siti internet e blog. Se ne parla sui social network perché una vecchia signora del giornalismo ha messo due reporter a lavorare fino a che l’ennesima storia su un potente si è trasformata nella storia di un ex potente.

Accanto al modo tradizionale di fare inchieste, il metodo Spotlight per intenderci, ne esiste un altro di cui stiamo osservando la genesi proprio in questi mesi. Ed è il giornalismo nato sulle storie e nelle storie di Instagram. L’esempio migliore, a parere di chi scrive, è quello del Washington Post, ma anche il New York Times e la BBC, per rimanere a testate straniere, offrono testimonianza di assoluto pregio.

Le storie di Instagram hanno molte qualità, su tutte quella di costituire un palinsesto tipicamente giornalistico su cui poggiare le notizie, vivendo sulla stretta attualità. Raccontano infatti le ultime 24 ore, e trascorso questo lasso di tempo – per inciso, il medesimo di un quotidiano – svaniscono.
L’immediatezza e la velocità con cui coprire la notizia e trasmetterla, a partire da una piattaforma, a un pubblico che segue la testata è un fattore positivo. Caratteristica questa che permette alle storie di insidiare l’unico vero network informativo social, ovvero Twitter. Da adesso se accade qualcosa di grosso e vogliamo conoscerne in diretta lo svolgimento, ottenere subito le breaking news la nostra attenzione andrà a Twitter prima e Instagram poi, in sequenza. L’uno offrirà i titoli, l’altro anche le immagini.

Ecco la differenza corposa è proprio sulla possibilità di offrire agli utenti immagini in sequenza – sia fotografie che video – alternate a didascalie, testi, addirittura virgolettati. Insomma Instagram scende più in profondità, consente l’articolazione di una storia vera e propria. Una prima pagina, un’apertura, uno svolgimento, dei protagonisti e una conclusione. Sembrerebbe una soluzione banale se uno la racconta in questi termini, ma fin qui nessun social network consentiva una roba del genere.

Aggiungiamo che se la qualità dei video è alta, con buone foto e ottime riprese, se l’impaginazione della storia nel complesso è ben progettata, se l’alternanza testo e immagini segue una logica in cui comprensione del testo e desiderio di fuga, a un tap, si bilanciano, se la scelta tipografica è azzeccata, il risultato è notevole.

La storia del Washington Post di ieri, sugli incendi in California, una breve con fotografie drammatiche e un testo essenziale, tuttavia molto efficace. Giornalisticamente irreprensibile.

Qualche giorno fa, sempre sul quotidiano di proprietà di Jeff Bezos c’erano reportage: uno su Irma, uno sui campi profughi del popolo Rohingya e un altro sui cani randagi di Mumbai. Qualità delle immagini incredibile e uno spazio dedicato alla storia – a partire da un materiale video variegato – molto più ampio. In alcuni casi erano presenti delle interviste.

Che tutto questo sia giornalismo è un fatto.

Che la confezione di questo prodotto giornalistico vada realizzata secondo standard qualitativi alti, è un altro fatto.
E che infine questa modalità possa diventare un appuntamento quotidiano con cui le testate raccontano qualcosa è indiscutibile.
Tra l’altro in questa maniera il giornale torna a proporre una modalità di racconto secondo il proprio linguaggio, la propria storia, il proprio posizionamento.

Si tratta, in definitiva, di un modello che aziende e organizzazioni che utilizzano Instagram per raccontarsi devono studiare con attenzione. Per non limitarsi a popolare il proprio news feed di GIF, fotografie graziose e scatti colmi di effetti e saturazione; per poter provare – semmai – a raccontare qualcosa di sé in maniera differente, più approfondita, di qualità.

Allo stesso tempo si vedono i difetti delle storie di Instagram.
Come al solito il primo difetto è che le storie risiedono proprio su Instagram. Non se ne esce, i produttori di contenuti giornalistici devono sempre passare per le forche caudine dei dittatori della rete, Google e Facebook. Passandoci, da un lato soggiacciono alle loro regole, dall’altro regalano i loro contenuti ai dittatori stessi che guadagnano su questo regalo tanti denari, assimilabili a antica una servitù di passaggio.

Ultimo limite è lo scarso livello di approfondimento di queste storie. Che galleggiano sempre sulla superficie delle notizie, non possono scendere in profondità e non possono offrire approfondimenti o scoop come quello su Weinstein. È nella loro natura.

Il giornalismo non muore. Continua a cambiare pelle. Si mantiene intatto il bisogno di notizie, analisi e scrittura di qualità.

Il problema, purtroppo, è il numero sempre più esiguo di persone che leggono testi lunghi. Che leggono giornali di carta e libri. Ma questo è un altro tema, e lo sconforto per un dato pubblicato oggi dal canale Twitter di Einaudi non ci consente di prenderlo in esame in questa sede.

Dei lettori parleremo un’altra volta.


Foto: panuwat phimpha / Shutterstock.com