Volkswagen e il dieselgate: dove vai se i contenuti non ce l’hai

di Stefano Silvestre

Chissà se tra qualche mese, quando l’autunno del dieselgate sarà un ingombrante (e costoso) ricordo, a Wolfsburg avranno ancora memoria di come era andato quel loro ultimo ultimo giorno di lavoro.

Già, perché venerdì 18 settembre 2015 i social media manager dei vari profili social internazionali della Volkswagen, il più grande gruppo automobilistico mondiale (che si fregia anche di brand come Porsche, Bentley, Lamborghini e Bugatti, tanto per fare qualche nome), saranno tornati a casa dalle varie sedi di lavoro con la serenità dell’imminente weekend, non sospettando minimamente la catastrofe che li aspettava dietro l’angolo.

Non sapevano che sarebbero finiti nel mirino della loro stessa community.

Non sapevano che la casa madre gli avrebbe servito un lunedì da incubo sul piatto d’argento.

E non sapevano neanche che quel 18 settembre 2015 avrebbero di fatto archiviato un capitolo di storia della comunicazione di crisi (e non) del Gruppo Volkswagen che – si spera – non tornerà mai più.

Dopo lo scandalo del software truccato (ma sarebbe meglio dire “intelligente”) che riconosceva la modalità di lettura gas di scarico – quella usata nei test per capire quanto un’auto inquina, per intenderci – ha infatti stupito in particolare il mutismo e soprattutto la staticità di una casa che di mestiere costruisce “Das Auto”.

 

Nessun comunicato, neanche un accenno su Facebook, Twitter o sui siti multilingua della casa tedesca. Nella assoluta assenza di un web magazine, uno strumento che di certo non avrebbe certo svuotato le casse di Wolfsburg, non è arrivato neanche un comunicato stampa o un articolo in disperata difesa del colosso automobilistico mondiale e orgoglio dell’industria tedesca.

Difendersi era una missione quasi impossibile, va riconosciuto. Ma dalla complessità di un’operazione a trovarsi con un gigante in ginocchio e con la bocca cucita, passa un oceano. Una volta che il pasticcio era ormai fatto, a Wolfsburg non è infatti più venuta neanche un’idea.

Basta un’istantanea: sul profilo Twitter ufficiale della Volkswagen campeggia un ormai poco rassicurante “Think New” (no, niente a che vedere con gli elaborati metodi per barare sulle emissioni dei motori a gasolio per conquistare uno scettico mercato americano) e, appena sotto, un videomessaggio.

Il videomessaggio, appunto. È un filmato di poco più di 2 minuti e mezzo: telecamera fissa su cavalletto, soggetto in primo piano, illuminazione basica e uno sfondo minimal che più minimal non si può in cui un oltremodo mesto ad Martin Wintlekorn si scusa pubblicamente, se la prende con “gli errori di una piccola parte di persone” e respinge l’ipotesi dimissioni.

Il tutto girato in FullHD, per carità.

Non poteva bastare neanche 15 anni fa. È chiaro che le parole dell’ormai ex ad sono destinate a scomparire nello tsunami di rivelazioni e colpi di scena che segue ogni scandalo automobilistico (e non). Chi non ricorda la spystory MclarenFerrari in Formula 1? E basta tornare indietro per ricordare anche la spinosa faccenda del test dell’alce fallito a fine anni ’90 dalla Mercedes Classe A.

Altri tempi, certo. Un episodio è accaduto mentre Twitter e Facebook decollavano, l’altro – per fortuna della casa di Stoccarda – quando i social network vivevano ancora tra i fili del telefono.

Oltre a una maxi multa e una figuraccia globale, quello che è destinato a restare nel tempo, stavolta, è l’unica reazione comunicativa, per giorni, della più grande casa automobilistica mondiale.

Un videotestamento a social unificati. E basta.

Passata l’onda anomala, a Wolfsburg potrebbero tornare alle basi. L’ufficio stampa c’è, anzi ci sono. E sono corposi, poliglotti, dinamici, moderni e professionali.

Ora basta aprire un web magazine e parlare, meglio se con contenuti aggiornati, giornalistico (non solo nello stile ma nel corretto impiego delle fonti) e, sopratutto, personalizzati per ogni Paese di riferimento. Un dettaglio, quest’ultimo, che per una multinazionale è ormai una necessità, un punto di partenza più che un vezzo.

Magari al prossimo gate tutto questo non servirà per salvare la faccia. Magari negli Stati Uniti quella voce non arriverà più per tanti anni, ma nel resto del mondo circolano ancora 11 milioni di vetture “bugiarde”.

E quei mercati vanno mantenuti, anche con la comunicazione.