Da inutile a indispensabile. L’evoluzione del Social Media Manager

La percezione della propria presenza in rete è cambiata radicalmente. Lo sanno gli utenti, che a distanza di anni si ritrovano a poter scavare nella propria identità digitale con un Google qualsiasi, perché le tracce lasciate sul web restano per sempre. Lo sanno i brand, che hanno dovuto totalmente ripensare le proprie strategie di social media marketing, passando dalla semplice presenza passiva («Siamo qui, ma non sappiamo neanche noi perché») a quella attiva («Siamo qui, e vogliamo che voi lo sappiate»). Per le aziende questo ha significato soprattutto una cosa: integrare nel proprio team di lavoro figure professionali che fino a 5 anni fa neanche esistevano. Sì, proprio lui: il social media manager.

LE ORIGINI – Nel 2009 Jennifer Preston veniva assunta come social media editor dal New York Times, dimostrando al mondo intero che di social media si poteva vivere, tanto da meritare uno stipendio. Immaginate un attimo il contesto. Una figura lavorativa del tutto nuova – inconcepibile per i più – si inseriva nella redazione del quotidiano più prestigioso al mondo con una pretesa enorme. Quella di dimostrare a giornalisti affermati (ma soprattutto avanti con l’età) che questi facevano bene il loro lavoro, sì, ma che con Twitter lo avrebbero fatto meglio – solo per citare la piattaforma principale ad uso e consumo degli e-journalist. Dopo le prime resistenze, l’intero corpus redazionale si convertì al dogma dei 140 caratteri. Riportiamo il commento di David Carr, media columnist della “Gray Lady”, intervistato nel corso del documentario Page One. Inside New York Times:

Siamo seri, come si fa a trovare utile questa confusione di dati sparsi? Ma a 52 anni, anche per necessità professionale, ho dovuto accettarlo. Sono in condizione di raccontare in un dato momento molte più cose di quante avrei creduto possibile. Su Twitter posso cogliere il senso di un evento e delle sue ripercussioni nel tempo di un caffè da Starbucks. Da un anno a questa parte, ho capito che il vero valore del servizio sta nel prestare ascolto a una voce collettiva interconnessa. Il medium non è il messaggio. Sono i messaggi a essere i media.

Lo “scontro” concettuale tra Jennifer Preston e David Carr funge da perfetto espediente per descrivere l’evoluzione della figura professionale addetta alla gestione dei profili sui social network dei giornali, delle aziende, dei partiti politici, dei singoli leader.

INUTILE PRIMA, INDISPENSABILE POI – L’uso approssimativo e tragicomico che si faceva della propria presenza in rete in tutto il primo decennio degli anni duemila, ha costretto i diretti interessati a rivalutare completamente la possibilità di far gestire i propri profili sui social network non agli amici (o ai giornalisti più à la page o agli attivisti di partito semplicemente più giovani), bensì a figure professionali ad hoc. Come suggerisce Gianluca Diegoli, si è passati dal semplice addetto alla pagina social – cioè «manager in senso anglosassone, in cui manager è solo gestore» – al vero e proprio social media manager.

In molti hanno sperimentato sulla propria pelle l’ebbrezza della gogna social. Gli esempi sono infiniti. Ci sono profili istituzionali che hanno discusso in modo sconclusionato con gli utenti finendo per insultarli. Altri, consci di aver commesso qualche gaffe spaziale, hanno provato a cancellare il post/tweet incriminato, suscitando matematicamente la reazione opposta alla censura: la pubblica umiliazione, solitamente frutto di qualche screenshot tempestivo e incriminante. E poi ci sono tutti i classici errori da social newbie (relativamente) meno gravi: scarsa capacità di alimentare la community, incostanza totale nella pubblicazione dei post, semplice uso di vetrina del profilo senza alcun tipo di interazione etc etc. Il problema è che la rete non perdona e, ora più che mai, proprio qui gli atteggiamenti mentali si modificano, la  coscienza pubblica si forma e le persone si fanno un’idea di un’istituzione X (politica o aziendale che sia) a partire anche dal modo in cui questa si presenta sul web.

QUALE FUTURO PER LA PROFESSIONE? – Difficile dirlo, vista l’instabile dinamicità del campo in cui il social media manager opera. Per Matteo Bianconi, la sua sovraesposizione mediatica ha portato tanti, troppi, ha ritenersi immeritatamente social media qualcosa:

Il mondo della Comunicazione è diventato il Concorso Nazional-Popolare più partecipato di sempre. Non sai che fare della tua vita? Sai mettere in fila soggetto-predicato verbale-complemento oggetto? Sai aprire un profilo Facebook? Allora è fatta: puoi diventare un social media qualcosa.

Per altri, questa figura andrà eclissandosi dato che tutti i lavoratori, gradualmente, acquisiranno un grado di competenza social tale da rendere obsoleta la presenza di un professionista specifico: questa distopia non tiene conto del fatto che tale processo, anche nella più funerea delle previsioni, coinvolgerà tutto il segmento degli occupati tra chissà quanti decenni. Per Daniele Chieffi, invece, questo rappresenta attualmente l’unico lavoro, in tema di comunicazione, in cui la domanda supera l’offerta e quindi venghino siori venghino: il mercato chiama, che i giovani neolaureati rispondano. A patto di offrire, s’intende, tutto il necessario: flessibilità mentale, empatia, spirito critico. Una figura mitologica con la testa del copywriter, il corpo del PR e l’anima del creativo.

Cari social media manager, ne va del vostro interesse. Dimostrate al mondo, o quantomeno al vostro capo, che la vostra competenza specifica merita di essere legittimata. Non c’è altro modo per abbattere i luoghi comuni. Dopotutto, siete voi la migliore pubblicità di voi stessi e della vostra professione. Onoratela.