Brand journalism vs. brand journalist, non solo questione di termini
Antonello Piroso lascia Blogo per aprire una piattaforma di brand journalism. È quanto si legge, in questi giorni, su varie testate nazionali. Ma un attimo, cosa significa? L’intenzione dell’ex direttore del Tg La7 non è quella di iniziare a curare un progetto di giornalismo aziendale. L’obiettivo di Piroso è di aprire un web-magazine incentrato sulla sua persona, sul suo brand. Che confusione, no? Forse è il caso di fare un po’ di chiarezza.
BRAND JOURNALISM
Entrambe le tendenze si stanno affacciando prepotentemente sul mondo della comunicazione digitale. Quando parliamo di brand journalism intendiamo, generalmente, la produzione di contenuti giornalistici per aziende. Insomma, quello di cui abbiamo sempre parlato su queste pagine. Non c’entrano le personalità, i nomi famosi. C’entra solo la volontà di sperimentare una strategia di comunicazione aziendale che punti sulla trasparenza per aumentare la reputazione online.
BRAND JOURNALIST
Diverso è il caso di quelli che chiameremo brand journalist. Si tratta di una tendenza, sperimentata soprattutto negli Stati Uniti, di cui abbiamo già parlato, chiamandola personal brand journalism. Nasce dall’idea secondo cui, con i giornalisti attivi su Facebook e Twitter, la forza di una redazione non sia più nel collettivo, ma nei singoli nomi dei professionisti che la compongono. Un caso di scuola è quello di Glenn Greenwald, che ha lasciato il Guardian per lanciare una testata basata sulla sua fama, dopo lo scoop sull’Nsa.
La differenza, dunque, sta proprio nell’interpretazione della parola brand. Nel primo caso, questa viene intesa come organizzazione aziendale, che sta dietro alla produzione di contenuti giornalistici. Nel secondo, si riferisce alla trasformazione in marchio dei giornalisti 2.0. Sintetizziamo.
Nel brand journalism, le imprese diventano editrici. Con i brand journalist, il giornalista si trasforma in testata.