L’Adblocking sta uccidendo la pubblicità (solo quella brutta)

di Maria Scopece

La pubblicità su internet potrebbe avere le ore contate. Secondo l’indagine “Lo stato dell’arte dell’AD blocking in Italia”, il 13% degli italiani ha installato sul proprio pc un Ad blocker , il 22% ne ha installato uno su un device (smartphone, iPad e tablet) e il 15% di tutte le pagine viste da un pc hanno attivo un Ad blocker.

COS’È UN AD BLOCKER

Partiamo dall’inizio. Con la denominazione Ad blocker si intendono le estensioni che si aggiungono al proprio browser (Google Chrome, Safari, Opera) e che bloccano la pubblicità presente sui siti internet visitati e opera un filtraggio dei contenuti. Gli Ad blocker, dunque, oscurano alcuni elementi presenti online e che spesso intralciano la navigazione in particolar modo quando si aprono più finestre pubblicitarie contemporaneamente.

CHI USA AD BLOCK E PERCHÈ?

Stando ai dati dello studio, gli utenti che hanno installato un Ad blocker sono soprattutto uomini (il 65,3%), tendenzialmente giovani tra i 25 e i 34 anni (25,9%) e mediamente istruiti: il 91% ha almeno un’istruzione media superiore. Le ragioni che hanno portato alla scelta di installare un Ad blocker risiedono nel disturbo che si riceve da una pubblicità troppo invasiva o da troppa pubblicità che ha come effetto il rallentamento della fruizione dei contenuti online. Per quanto riguarda gli smartphone è proprio il rallentamento dei tempi di caricamento la ragione che invita a ‘proteggersi’, secondo quanto segnala il 40% degli intervistati contro il 37,78% che spiega la sua decisione con la volontà di risparmiare il traffico dati. 

LA PUBBLICITÀ ONLINE È DESTINATA A MORIRE?

Finirà la pubblicità online? Forse solo una certa forma. Benché più del 65% degli utenti, infatti, abbia attivato volontariamente l’Ad blocker, il 56% si dice pronto a farne a meno se la pubblicità fosse meno invadente. Questo è il dato dal quale partire per capire come produrre contenuti pubblicitari che siano compatibili con una normale fruizione dei testi online.

Le alternative ai banner sono molteplici e riguardano tutte la proposizione di contenuti interessanti per gli utenti. C’è il brand journalism, con la possibilità di creare magazine che riflettano l’universo valoriale dell’azienda. O ancora il native advertising, l’evoluzione del pubbliredazionale che sfrutta la credibilità di testate affermate per raccontare qualcosa di interessante sui propri prodotti.

Ma la chiave sono i contenuti, in ogni loro forma. Dai blog ai post sui social network, fino ai tweet e i video. La chiave è coinvolgere gli utenti con una buona pubblicità, che li spinga a voler leggere, a condividere. A sentirsi parte di qualcosa.