Facebook ha sdoganato il linguaggio violento sui social network
di Nicola Zamperini e Francesco Marino
I media di tutto il mondo li hanno chiamati Facebook Leaks. Si tratta dei documenti pubblicati dal Guardian che rivelano le regole del social network di Mark Zuckerberg su temi controversi come linguaggio violento e sesso.
Una sorta di Costituzione 2.0, che certifica ciò che si può fare e ciò che è vietato nell’arena digitale più famosa al mondo.
Cosa significa la pubblicazione di questi documenti? Abbiamo almeno 5 considerazioni da fare.
1. Da un punto di vista più ampio, queste regole certificano uno stato di cose che molti osservatori – noi compresi – sostengono da tempo: Facebook non è un media, è uno spazio digitale, uno stato. E, weberianamente, esercita il monopolio dell’esercizio della forza all’interno del suo territorio. Ok, il territorio è digitale e al posto delle manette c’è il ban, ma la sostanza è la stessa.
2. Andiamo a vedere le regole nel dettaglio. Ciò che tutti hanno notato è che sul linguaggio violento rimane una certa tolleranza. Non ci sorprende. Si tratta di una soluzione che asseconda una tendenza e che assicura la conservazione del social network. Il ragionamento è semplice: se tutti usano un linguaggio violento e io lo vieto, gli altri vanno a insultarsi da qualche altra parte. E Facebook questo non può permetterlo. Prima di tutto viene la sopravvivenza del social network, poi la qualità del linguaggio.
3. La natura dei Facebook Leaks sposta in avanti la qualità (positiva e soprattutto negativa) del discorso nei social network. Discorso che non possiamo definire semplicemente pubblico, ma che possiede uno statuto proprio. Insomma il timore è che le regole di Facebook avranno effetti pesanti sul dibattito pubblico e che saranno negativi.
4. Ancora sul linguaggio violento, le regole certificano ufficialmente la natura hobbesiana dei social network. Nelle reti sociali, homo homini lupus. Le norme di Facebook ratificano un determinato tipo di linguaggio all’interno delle reti sociali. Il perché lo spiega Sherry Turkle nel suo ‘La conversazione necessaria’, di cui riportiamo un estratto.
“Si è scoperto che individui che mai si permetterebbero di fare i bulli di persona si sentono invece liberi di essere aggressivi e volgari quando sono online. La presenza di un volto e di una voce ci ricorda che stiamo parlando con un essere umano, ed è abbastanza naturale che si applichino le regole del vivere civile. Quando però comunichiamo attraverso uno schermo, sperimentiamo una sorta di disinibizione. Gli studi rilevano che i social media diminuiscono l’autoc0ntrollo proprio perché inducono un picco momentaneo di sicurezza in noi stessi, il che significa che online siamo tentati di comportarci in modi che una parte di noi sa che feriranno gli altri, ma smettiamo apparentemente di preoccuparcene”.
5. Ultima considerazione, di natura più generale. Quello messo in campo da Facebook è il più grande meccanismo di controllo di conversazioni umane mai visto sulla faccia della terra. Parliamo di 4.500 persone il cui ruolo è controllare e verificare quello che quotidianamente gli esseri umani dicono all’interno di uno spazio, umano o digitale.
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