Personal brand journalism: non ognuno vale uno

Esiste una nuova visione del giornalismo secondo cui il lavoro della redazione non si regge sull’organizzazione del collettivo quanto, soprattutto, sull’influenza e sul lavoro dei singoli.

È il caso di Glenn Greenwald che, dopo aver guadagnato fama internazionale grazie alle proprie inchieste sull’NSA (con annesse e connesse rivelazioni scottanti di Edward Snowden), ha detto addio al Guardian in tutto favore dell’Omidyar Network, gestito dal fondatore di eBay. È il caso di Nate Silver, penna d’oro del New York Times, staccatosi dalla redazione-madre  in cambio dell’offerta allettante di ESPN – leader mondiale del settore sportivo – di poter formare un team con piena libertà editoriale. È il caso di Kara Swisher e Walt Mossberg, entrambi ex tech columnist del Wall Street Journal, che hanno creato un sito a sfondo tecnologico tutto loro, re/code, supportato economicamente dalla NBCUniversal e da Terry Semel, fondatore di Windsor media.

È, soprattutto, il caso di Ezra Klein, storico curatore del Wonkblog sul Washington Post, che sta cercando investitori (per un totale di 10 milioni di dollari) per costruire un nuovo sito focalizzato sull’«explanatory journalism» in tema politico. L’obiettivo? Giocare sulla notorietà di Klein per esportare su una piattaforma diversa – seppur affiliata al Post – i lettori con cui ha fidelizzato nel tempo. Una mossa azzardata, se si considera che, di fatto, Klein ha proposto a uno dei giornali più importanti del mondo di perdere una grande firma in virtù del tornaconto economico che ne sarebbe potuto derivare qualora, questa stessa firma, si fosse staccata in uno spazio autogestito. Garantendo importanti percentuali di reddito al Post stesso.

And that leads to my cautionary question: is this all journalistic vanity and hubris, ending in certain tears, or is there plausible economic logic to individual journalistic fiefdoms?

Questo è il dubbio amletico di Michael Wolff che, sul Guardian dello stesso Greenwald, si domanda se le logiche economiche alla base di questi «feudi giornalistici individuali» saranno in grado di sopperire ai fallimenti di quei presunti influencer che perderanno la sfida dell’impresa solitaria. E, fondamentale, sarà anche il modo in cui le redazioni si rapporteranno a questo fuggi fuggi generale. Come potrebbe BuzzFeed rinunciare al blog di Ben Smith o Business Insider a quello di Henry Blodget i cui singoli post fanno guadagnare alle proprie redazioni, rispettivamente, dalle 80mila alle 360mila visite? Decenni di onorata carriera e lustri di abile presenza online hanno fatto di questi singoli, nodi fondamentali della rete. Tasselli imperdibili, da coccolare.

Ma esiste anche il rovescio della medaglia del personal brand journalism. Come suggerisce Nicole Levy su Capital New York, il prezzo da pagare per le aziende è alto. «Questi sub-brand autonomi sono costosi da costruire, e possono diminuire le reputazioni costruite nel corso del tempo delle singole redazioni», o brand newsroom che siano. Nel caso sopra citato di Ezra Klein, il Washington Post può anche trarre vantaggio economico, nell’immediato, da un Wonkblog autonomo. Ma sul lungo termine ne perderà in termini di credibilità. Perché il lavoro di un colosso editoriale che appare come mera somma aritmetica delle singole individualità, e non come progetto integrato del gruppo, è un lavoro basato più sull’ego dei giornalisti che non sulla mente collettiva che dovrebbe governarli per il bene del lettore e della qualità dell’informazione.

È altrettanto vero in un mondo, come quello digitale, in cui – spesso, non sempre – a fornire valore aggiunto all’impresa è proprio la web reputation dei singoli, le imprese devono realisticamente far fronte a questa dinamica.  L’obiettivo? Sfruttare il potere derivante dalla personalizzazione dei contenuti senza minare alla radice la propria identità. Questa sarà la sfida principale.